I cambiamenti del nostro caro vecchio mondo non si registrano solo con gli indici statistici o con l'aumento delle bollette del gas o della luce. Ci sono delle mutazioni apparentemente insignificanti e sfuggevoli che rappresentano, ad un orecchio attento, una nota nuova, più o meno intonata, nei soliti spartiti.
Sono i neologismi: quelle parole nuove inventate per significare un evento, un fatto, un prodotto prima inesistenti. Ma neologismi sono anche quelli introdotti per indicare, con un vocabolo nuovo, cose già note. La "copia fotostatica" è diventata la "fotocopia", la "motocicletta", la "moto" e così via. Questi fenomeni linguistici, di cui non voglio innalzarmi ad esperto, risentono ovviamente delle esigenze di chi quella lingua la parla e non sono solo la necessità di chiarezza o l'esigenza di velocità dell'eloquio a condizionarne le modificazioni.
Negli ultimi anni abbiamo notato tutti come una serpeggiante istanza di correttezza politica abbia influenzato il linguaggio. I "vecchi" sono "anziani", i "pazzi" sono "malati mentali", le "donne di servizio" sono "colf", i "minorati" sono "disabili". È un nuovo sentire secondo cui devono essere impiegati solo lemmi che non abbiano alcuna valenza spregiativa. Possibilmente si devono adottare termini che denotino in positivo anche le situazioni più disgraziate.
È una soluzione tranquillizzante e sedativa di sciagurati conflitti. Rende più serene le persone che vivono in uno stato di disagio più o meno incombente, ma soprattutto affranca dall'ansia politici, amministratori, funzionari e operatori che quelle patate bollenti dovrebbero togliere dal fuoco (e non abbassare la fiamma) insomma siamo in presenza di “ansiolitici linguistici”.
C'è poi qualcuno che si spinge ancora più in là. Qualche anno fa, alcune persone disabili hanno avuto l'acuta e orgogliosa intuizione di sottolineare come, anche in presenza di una menomazione importante, riescano a produrre, realizzare, essere competitivi con il resto del mondo. Per definire questa condizione hanno coniato il neologismo "diversamente abili". Nella loro bocca, in quel contesto, in quel momento poteva forse avere un senso. Forse. Già perché alla fin fine si enfatizza il concetto di abilità a tutti i costi, la concorrenza, la rincorsa ad una omologata normalità con tutti i paradossi che questa porta con sé.
Ma ci sono persone, più di quante si creda, la cui principale e vitale esigenza non è quella di trovare un lavoro e un collocamento mirato, ma quella di assicurarsi un servizio di assistenza che renda meno gravosa l'insostenibile pesantezza del quotidiano per i loro familiari a cui è delegata in toto, da distretti, comuni e servizi sociali, la loro stessa sopravvivenza. Sono le persone con handicap gravissimo e se il termine urtasse le sensibilità più raffinate potremmo definirle "diversamente ospedalizzate". Persone che al turismo accessibile non possono interessarsi, come pure alla possibilità di guidare un veicolo o alle opportunità dei servizi telematici o alla partecipazione a battaglie civili di avanguardia. La loro preoccupazione è sopravvivere, qualche volta malgrado i servizi socio-assistenziali pubblici. E se quei servizi verranno ulteriormente tagliati non diranno nulla perché non hanno voce. Altro che "diversamente qualcosa".
Niente di male, lo ripetiamo, se una persona disabile si autodefinisce "diversamente abile". Qualcuno potrà sorridere, a qualcun altro si inumidirà il sopracciglio di fronte a cotanta fierezza, in qualcuno scatterà l'emulazione e la volontà di superare la provocazione definendosi addirittura "diversamente dotato" (evocando pruriginose rimembranze). Ma quando il termine deborda dalla boutade per assurgere a termine di uso comune, si comincia a percepire un sentore di ipocrisia.
E mai come negli ultimi mesi mi è capitato di annotare quel termine "diversamente abili", magistralmente inchiavardato nei pubblici sermoni di politici, opinionisti, operatori, funzionari, responsabili di associazioni ed altri “dotti, medici e sapienti…”. Sembra si voglia far intendere che l'epoca dell'invalido povero ed emarginato sia stata sepolta da una nuova cultura fatta di promozione e di integrazione, di sperimentazione e di innovazione. Di questa "rivoluzione culturale" i "diversamente abili" sarebbero addirittura apportatori di ricchezza proprio grazie alla loro diversità.
Sono quasi certo che le persone disabili farebbero volentieri a meno di quella ricchezza. Sono portatori semmai di esigenze particolari che tanto sono più gravi quanto meno trovano risposta.
L'affermazione poi ce ne ricorda una di un po' più datata e svagata che interpretava la malattia mentale come una condizione comunque felice perché fuori dai rigidi e stereotipati paradigmi di una società bruta e poco creativa; pregiudizio mascherato e voglia di negare il profondo disagio che è proprio della malattia. La stessa superficiale ipocrisia di chi (e non sono in pochi) sostiene che le persone con Sindrome di Down sono comunque felici "perché sorridono e sono socievoli" e perciò possiamo definirle "diversamente tristi"?
È quindi una definizione non stigmatizzante e che raschia di meno la crosta nelle paure di ognuno di noi, che siamo o meno disabili. Ma è una terminologia oltre che falsa, inefficace. Falsa perché distorce la realtà spalmandola su un quadro rassicurante, una rappresentazione buona per tutti i salotti e per tutte le stagioni. Inefficace perché non evidenzia il disagio e non rimarca l'obbligo civile della presa in carico da parte di tutti.
La mia non è quindi una disquisizione su lana caprina.
C'è stato addirittura chi, in una passata legislatura, ha depositato una proposta per imporre per legge la nuova definizione. Immaginiamo con che dispiacere quel deputato abbia concluso il suo mandato senza avere l'opportunità di sottoporre all'aula l'epocale riforma! Un vero peccato perché l'approvazione di quella norma avrebbe dato la stura ad un'autentica rivoluzione linguistica.
Nel pieno rispetto del "politicamente corretto", a furore di legge e con zelo egalitaristico, tutte le fasce più disagiate avrebbero goduto della riforma socio-linguistica.
Ecco allora norme per l'assistenza domiciliare dei "diversamente maturi", misure di sostegno economico per i "diversamente benestanti", nuove disposizioni sui flussi di ingresso dei "diversamente colorati", regole più aperte per le coppie "diversamente eterosessuali" e infine contributi per le comunità di recupero dei "diversamente lucidi" e dei "diversamente astemi".
Ad una specifica commissione interministeriale sarebbe poi probabilmente stato affidato l'ingrato compito di individuare i termini politicamente scorretti nonché di dirimere gli inevitabili dilemmi semantici: immaginatevi i "diversamente abili" recuperati grazie ai progressi della tecnologia e della medicina come era corretto definirli? "Ex diversamente abili"? "Comunemente abili"? Oppure "Diversamente diversamente abili"? Fortunatamente tutto questo non è accaduto (per ora…).
al di là che sottoscrivo, mi fai venire in mente un brano di Riccardo Zappa:
RispondiEliminahttp://youtu.be/8E2I6Olqqc0
che meraviglia... ascoltarlo mentre rileggo il post "A PROPOSITO DEI NEOLOGISMI “MIGLIORATIVI”… Grazie caro Annibale della dritta... E' proprio vero sai "Definire significa limitare"...
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